“Non so se potrò mai tornare a casa” – La voce di Nadia Scarpetta, un anno dopo l’alluvione in Mesolcina

Il 21 giugno 2024 la Valle Mesolcina è stata colpita da una devastante alluvione. In poche ore, intere comunità si sono ritrovate isolate, case danneggiate o distrutte, vite stravolte o scomparse. A quasi un anno di distanza, mentre i riflettori si sono spenti, molte persone vivono ancora sospese nell’incertezza.

Tra loro c’è Nadia Scarpetta, che quel giorno ha dovuto abbandonare la sua casa. Da allora, non ha più potuto farvi ritorno. Il suo racconto è un viaggio nel dolore della perdita, ma anche nella forza silenziosa con cui affronta ogni giorno un futuro ancora tutto da scrivere.

Questa intervista non è solo la testimonianza di una famiglia colpita dall’emergenza, ma un richiamo alla memoria e alla responsabilità collettiva: perché dietro ogni disastro naturale, restano vite reali in attesa di risposte.

Ci può raccontare cosa ricorda di quel 21 giugno 2024?
Prima delle 19:00 ha iniziato a piovere molto intensamente. Abbiamo controllato le informazioni emanate da Meteo Svizzera che indicavano una durata di 5 minuti con forte intensità. Invece l’intensità non è mai diminuita per 30 minuti; mai viste precipitazioni così forti alle nostre latitudini. Abbiamo iniziato ad osservare il fiume Moesa (a est della nostra abitazione), che saliva velocemente fino a scorrere al di sopra del ponte di Sorte. Mai avremmo pensato che il problema potesse arrivare dal lato opposto (quello a ovest della casa). Nel frattempo, c’è stata l’interruzione della corrente elettrica e ci siamo ritrovati al buio.
Poi abbiamo iniziato a sentir tremare la casa e le stoviglie negli armadi come se ci fosse un terremoto. Era il riale Molera che, uscito dall’argine, scendeva diritto sulla nostra abitazione, portando fango e detriti. Siamo saliti in mansarda a osservare la situazione dalla finestra. Dopo alcuni minuti, abbiamo visto l’elicottero della Rega che evacuava i nostri vicini.
Poi siamo scesi in garage a tamponare acqua e fango che oltrepassavano la porta che conduce in cantina, completamente invasa da acqua e fango.

Quando ha capito che doveva abbandonare la sua casa? Cosa ha provato in quel momento?
Verso le 21:20 è arrivato l’usciere comunale che ci ha comunicato l’obbligo di abbandonare la casa; i pompieri ci avrebbero poi condotto al Centro Sanitario di Roveredo. La nostra intenzione era di non abbandonare la casa e contenere l’avanzata del fango all’interno dei locali. In quell’esatto momento suona il telefono e dei conoscenti ci comunicano che loro possono ospitarci per la notte.
Difficile descrivere le emozioni di quel momento, tutto è stato veloce e inaspettato e siamo stati costretti ad improvvisare.

È riuscita a portare con sé qualcosa o ha dovuto lasciare tutto?
Siamo stati costretti a lasciare tutto. I pochi minuti a disposizione prima di uscire di casa non consentivano di raccogliere oggetti da prendere con sé. Inoltre eravamo convinti che la mattina seguente saremmo rientrati a casa nostra.

Cosa significava per lei quella casa? Che ricordi vi erano legati?
È la casa dove abbiamo vissuto per trent’anni e dove abbiamo visto crescere i nostri figli. Siamo molto legati a questa casa anche poiché l’edificio appartiene alla nostra famiglia da secoli. Abbiamo riattato uno stabile che esiste da oltre duecento anni e che è stato costruito con il sacrificio dei nostri avi.
Tutti i nostri ricordi e la nostra vita sono legati indissolubilmente a questa casa.

C’è un oggetto, una stanza, un angolo particolare della casa che le manca più di tutto?
Tutti i locali e le nostre abitudini precedenti ci mancano enormemente.

Come descriverebbe il senso di vuoto o di sradicamento che ha provato dopo la perdita?
Immediatamente non ci si rende conto esattamente della portata della situazione e di tutte le conseguenze. Poi con il passare delle ore e dei giorni si prende coscienza di quanto avvenuto, di tutto ciò che è cambiato per sempre e di quanto si è perso in pochi minuti. È molto difficile accettare tutto questo e per alcune cose necessiteremo di ulteriore tempo.
Nonostante sia passato quasi un anno dal tragico evento, siamo ancora in una fase di incertezza sul nostro futuro per cui non ci è stato possibile elaborare tutto quanto vissuto e non possiamo ancora esprimerci in merito all’accettazione di una nuova realtà, diversa da quella che è sempre stata la nostra speranza: ritornare il prima possibile a casa nostra.

Dove ha vissuto in questi mesi? Com’è stato adattarsi a questa nuova realtà?
Siamo stati molto fortunati: la famiglia (composta da quattro persone) che si era offerta di ospitarci per la prima notte ci ha ospitato (vitto e alloggio) per un intero mese. È impossibile descrivere a parole cosa significhi questo, unicamente chi lo vive in prima persona lo può capire. Sia per loro che per noi sono state settimane molto difficili, ma loro si sono dimostrati gentilissimi e davvero molto generosi e per questo gliene saremo sempre grati e riconoscenti. Non è stato per nulla facile trovare a Lostallo un’abitazione per quattro persone.
Poi, con il passa parola, siamo riusciti a trovare la casa dove abitiamo attualmente. Ci siamo adattati senza troppe pretese ad un vecchio stabile e ad una situazione completamente diversa rispetto a prima, privandoci di molti comfort.

Qual è stata la cosa più difficile da affrontare nei giorni e nei mesi successivi all’evento?
Abbiamo dovuto affrontare difficoltà burocratiche/assicurative che non ci hanno di sicuro aiutato. È stata una pessima esperienza di cui avremmo volentieri fatto a meno e che non avremmo mai immaginato di dover affrontare. È proprio il caso di affermare: oltre il danno anche la beffa.
Un altro aspetto non facile da gestire è relativo al fatto che nel paese di Lostallo dopo pochi giorni tutto è tornato alla normalità, unicamente per gli sfollati di Sorte la vita non era più quella di prima, ma bisogna accettare che per chi non è stato toccato direttamente la vita va avanti come se nulla fosse. Noi continuiamo però a sentirci come dei marziani su di un altro pianeta. Siamo stati costretti a gestire tre tipologie di problemi:

  • morale e psicologico (causato dall’incertezza sul futuro, la mancanza di informazioni da parte delle autorità…);
  • materiale e di ordine pratico (dover cambiare e rinunciare a tutte le proprie abitudini);
  • economico (originato dalle maggiori spese da affrontare, come pagare contemporaneamente l’affitto di due case, e dalle perdite non rimborsate dalle assicurazioni).

Ha sentito il sostegno della comunità o delle istituzioni in questo periodo?
Avremmo voluto avere più considerazione da parte delle autorità e che ci venissero date maggiori informazioni sull’evoluzione della situazione. In diverse situazioni è mancata totalmente la sensibilità nei confronti degli sfollati. Probabilmente per coloro che non lo sperimentano direttamente sulla propria pelle è impossibile immaginare cosa comporta non poter vivere nella propria casa, a livello morale, materiale ed economico.
Restiamo convinti che con l’intervento dell’esercito, dopo poche settimane avremmo potuto rientrare nelle nostre abitazioni.
Purtroppo per molte persone della comunità siamo addirittura dei privilegiati e non ci dovremmo nemmeno lamentare. Sono convinti che stiamo bene e che ci siamo arricchiti con gli indennizzi delle assicurazioni e delle donazioni.

A quasi un anno di distanza, le è stato detto se potrà tornare nella sua casa?
Siamo ancora in una fase di incertezza sul nostro futuro e non abbiamo nessuna garanzia di poter tornare nella nostra casa e di quando ciò potrebbe avvenire.

Come vive questa lunga attesa, tra speranze e incertezze?
Questa lunghissima attesa è difficilissima da accettare, soprattutto il fatto che il termine della decisione continua ad essere posticipato, peggiorando di conseguenza la nostra situazione. La nostra speranza è rimasta sempre la stessa del primo giorno: ritornare a casa nostra il prima possibile.

Cosa significa per lei non sapere ancora quale sarà il suo futuro?
Significa non poter progettare nulla e rimandare qualsiasi decisione in base a quanto verrà deciso da altri.

C’è qualcosa che vorrebbe dire alle autorità o a chi prende le decisioni su queste situazioni?
Di utilizzare il buon senso e di coinvolgere maggiormente i diretti interessati nelle decisioni, siccome verrà deciso il futuro della nostra vita e non quella della comunità.

Cosa l’ha aiutata a resistere finora?
La speranza di poter ritornare alla vita di prima.

Come immagina la sua vita tra un anno? Si permette di fare progetti, o aspetta ancora delle risposte?
Siamo ancora in una fase di totale incertezza sul nostro futuro. Difficile immaginare la nostra vita tra un anno. Non possiamo progettare nulla e aspettiamo con grande ansia le risposte delle autorità comunali.

Cosa consiglierebbe a chi si trova o si troverà nella sua stessa situazione?
Non siamo in grado di dare consigli. Ognuno fa le proprie scelte in base a specifici stili di vita e abitudini. Non è possibile, perciò, affermare che le nostre scelte potrebbero rivelarsi giuste anche per altri, unicamente per il fatto che lo sono state per noi.

Le parole di Nadia Scarpetta ci ricordano che le emergenze non finiscono quando l’acqua si ritira. C’è una ricostruzione materiale, ma soprattutto una ricostruzione interiore, fatta di attese, incertezze, speranze che resistono nonostante tutto.

La sua voce è quella di tanti che oggi vivono in un limbo, in attesa di decisioni, risposte, segnali di attenzione. E proprio per questo non può restare inascoltata. Dare spazio a queste storie è un dovere, perché solo ricordando possiamo costruire un futuro più giusto, più umano, più consapevole.

Per Nadia e la sua famiglia, e per tutti coloro che ancora non sanno se potranno tornare a chiamare “casa” quel luogo dove tutto è cominciato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto